In principio era il racconto orale, tramandato da una persona all’altra, sino a quando la storia non diveniva di dominio pubblico e conosciuta ai più; poi l’uomo ha scoperto il modo di fissare i propri ricordi, le proprie vicende, i propri sogni. È nata così l’arte della narrazione scritta.
Certo sino a quando Gutenberg non si è messo d’impegno e ha tirato fuori dal suo cilindro – anacronismo storico e libertà del redattore – la prima macchina da stampa, i buoni monaci benedettini, e prima di loro tutti i dotti di ogni epoca capaci di scrivere, hanno consumato fiumi di inchiostro e spennato oche su oche pur di continuare a tramandare storie e scriverne di nuove.
L’uomo dunque da che è diventato tale ha sempre sentito la necessità di raccontare storie vere, presunte, inventate; di incanalare i propri sentimenti, sogni, angosce e speranze in un discorso che avesse un senso per lui e per chi avesse voglia di ascoltarlo e leggerlo.
Sono passati secoli da quel principio, gli scrittori si sono moltiplicati, le storie da raccontare sono diventate sempre più complesse e spaziano nel passato, nel presente e scrutano anche il futuro.
Qualche autore del passato che ha fatto un salto nel futuro ci ha anche preso; Orwell è uno di questi, ma anche la cara vecchia Mary Shelley ha fatto centro con il suo Frankenstein. Eh sì, perché che cos’è Frankenstein se non un robot con fattezze pseudo umane che prova gli stessi sentimenti e le stesse emozioni di noi poveri sempliciotti?
Per usare un termine più dotto e al passo con i tempi, il personaggio di Shelley è un’intelligenza artificiale – ovvero un sistema tecnologico che ha la capacità di risolvere problemi o svolgere compiti e attività tipici della mente e delle abilità umane.
Se ai tempi della scrittrice affrontare argomenti così all’avanguardia era quasi un modo per distinguersi ed essere considerati dei sognatori con la S maiuscola, oggi come oggi tutto ciò è la nostra minestra quotidiana e anzi la AI (Artificial Intelligence – l’inglese quando ci vuole ci vuole) è sempre più reale del re.
Non ne siete convinti? Che cosa mi rispondereste se vi dicessi che forse molto presto gli articoli di punta dei vostri quotidiani preferiti, o i romanzi gialli che più amate e con i quali andate anche a letto non saranno più frutto della sagace penna (forse sarebbe meglio dire tasto) del funambolico giornalista e del talentuoso scrittore, ma il risultato di chilometri di algoritmi alfanumerici?
No, non sto vaneggiando, questo potrebbe essere il nostro futuro prossimo; esperimenti in tal senso sono già in atto: in Giappone un robot ha scritto un romanzo che per la prima volta ha superato la preselezione di un concorso letterario, l’Hoshi Shinichi. Il giorno in cui un computer ha scritto un romanzo, titolo dell’opera, è frutto del lavoro di un’AI con il team di ricercatori del professore Hitoshi Matsubara della Future Unversity di Hakodate. I ricercatori hanno fornito ai programmi di scrittura artificiale trama, temi e personaggi, l’AI ha fatto un lavoro di assemblaggio – scelta e combinazioni di frasi e parole – cercando di rimanere il più aderente possibile ai parametri precedentemente forniti ai software.
Di fatto in campo giornalistico l’AI si sta già un applicando, soprattutto nel mondo telematico, dove le notizie vengono fornite all’utente quasi in tempo reale e dunque devono essere fruibili a getto continuo. In questo caso, pare che i “robot”, opportunamente “indottrinati”, possano rielaborare, assemblare e mettere per iscritto informazioni continue in un lasso di tempo più che breve così da fornire all’utenza news fresche, ma magari non sempre digeribili. Alcuni eventi si prestano più di altri all’utilizzo delle AI: le Olimpiadi, per esempio, potrebbero essere in questo modo ben coperte H24.
Anche nell’informazione scientifica gli AI sono già un fatto quasi assodato. L’editore Springer Nature ha pubblicato quello che definisce il primo libro scientifico scritto da un’Intelligenza Artificiale. Si intitola Batterie agli ioni di litio: un riassunto della ricerca contemporanea generato da una macchina. Henning Schoenenberger, direttore di produzione di dati e metadati della casa editrice, ci tiene a precisare che l’AI ha scansionato e sintetizzato autonomamente gli oltre 53.000 documenti di ricerca sulle batterie agli ioni di litio che sono stati pubblicati negli ultimi tre anni. Quello che ne risulta è un testo con tutto lo scibile sullo stato attuale della ricerca in un campo specifico. Utilizzando dunque l’AI si riesce in un lasso di tempo relativamente breve a mettere online in un unico testo tutto ciò che c’è da sapere su quel determinato argomento; inoltre i link correlati danno la possibilità al lettore di passare alla fonte originale e avere qualche informazione in più. Il tutto comodamente seduto al suo tavolo di lavoro con il proprio laptop, aggiungiamo noi.
E il giornalista fatto di carne, sangue e sentimenti? Lo scrittore scalpitante dalla mente in fermento per tutte le storie che si stanno annidando e che aspettano solo di vedere la luce su un tablet? Saranno relegati a una teca di un museo di storia naturale? Niente paura, le ultime notizie li danno ancora attivi e funzionanti: l'”umanità” della scrittura è al momento salva. Ma come dice un detto antico ma molto saggio: “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. Dunque narratori di tutto il mondo non abbassate la guardia, il destino delle storie è nelle vostre mani.
Gentile Otto Edizioni, a proposito dell’intelligenza artificiale utilizzata per scrivere libri, fare giornalismo e quanto altro, mi permetto di raccontare la mia esperienza. Lo scorso anno nella libreria del mio quartiere, è stato affrontato questo tema ed è qui che ho sentito parlare per la prima volta di queste apps che, fornite alcune parole chiavi, elaborano un testo in pochi istanti.
Ci hanno spiegato che questa tecnica, anzi questa furbata, perché di ciò si tratta, è utilizzata da tempo in ogni dove, ma lo si nota in modo evidente nel giornalismo sportivo e nello specifico in quello calcistico. Il relatore dell’incontro ci disse che qualche volta queste apps generano degli errori, anzi orrori di ortografia, grammatica e di stile, che possono risaltare all’attenzione di chi legge. Meno male quindi, perché vuol dire che chi le ha progettate non lo ha fatto con l’intenzione di costruire un prodotto di qualità, ma solo per accelerare i tempi di lavoro di chi le usa. Peccato che qualsiasi accelerazione nel campo della scrittura produce disastri. Immagino Alessandro Manzoni che ha scritto il suo romanzo in vent’anni, quanti minuti avrebbe impiegato con Chat GPT, oppure i ghostwriters di oggi, quanti secondi impiegherebbero per scrivere le opere a loro commissionate. Si – si disse nell’incontro – chi legge si accorge che la scrittura non è opera dell’uomo, si sentono delle scariche elettriche all’interno delle parole che fanno pensare a frasi scritte da un’intelligenza “truccata”.
Penso ad uno dei miei scrittori preferiti, Raymond Carver. Dicono che rileggesse decine e decine di volte quello che lui aveva scritto, fino all’esasperazione. Correggeva, rivedeva, riscriveva e forse, a causa di questa sua morbosità per la scrittura, lo hanno collocato nel microcosmo degli scrittori minimalisti! E se fosse stato trascurato e frettoloso allora lo avrebbero definito un massimalista? Io che ho letto i suoi racconti, non ho percepito alcuna scossa elettrica. Anzi no, un momento, l’ho percepita ma lungo la mia schiena; era un brivido, un’emozione, un fremito forte che pareva venisse dal cuore, proprio dal suo. E, “conoscendolo”, se gli avessero proposto di usare un’app contenente intelligenza artificiale, lui l’avrebbe guardata in tralice e avrebbe detto: <>.
Un saluto
Francesco Dicembre