Occhi sull’invisibile

Si raccontano storie dall’inizio dei tempi, si dice spesso che quelle che troviamo nei libri siano in realtà sempre le stesse storie, elaborate e proposte in infiniti modi diversi, tanto che sembrano tra loro molto differenti. Sono i miti che tornano e ritornano. Anche la nostra vita, in fondo, altro non è che un gesto narrativo

Nel corso della storia della letteratura il narrare ha sperimentato varie forme, da quella orale a quella scritta, prima di tutto, e poi da lì ha dato vita a stili diversi, punti di vista, toni…

Tra i libri di 8tto il narratore più particolare che abbiamo incontrato finora, nel nostro viaggio tra le storie, è sicuramente John, il libro che racconta se stesso ne Il camaleonte di Samuel Fisher.

È un libro mutaforma, potremmo dire, nel senso che diventa il libro che vuole in base alla persona da cui desidera essere scelto per portare avanti la propria scoperta del mondo. 

Ma non vogliamo parlare di John, qui, perché è bello fare conoscenza piano piano con la voce narrante e non è nostra intenzione togliervi questo piacere, nel caso in cui non abbiate ancora letto il libro in questione. Ciò di cui vogliamo parlare qui è invece lo sguardo del narratore. Come dicevamo la storia può essere raccontata dall’interno o da una voce esterna, prima o terza persona. Ma anche quando il cantastorie è parte integrante della vicenda, il suo sguardo può essere quello del poi, che crea un certo distacco con i fatti, anche se è sempre un distacco di parte. 

Nel libro Il camaleonte, a un certo punto della vicenda il protagonista Roger e la sua fidanzata Margery si trovano a Greenwich, sulla collina da cui si gode della vista di tutta Londra. Una vista in cui Londra si mostra come pura possibilità, vale a dire come infinite possibilità, per il loro futuro insieme. 

Questa vista, della città aperta davanti a noi come una scatola di cioccolatini, e questa conversazione sul luogo dove vivere insieme furono i punti di contatto tra la storia di Orlando e la sua. Questo assortimento impossibile di edifici – una vista che, nella sua vastità, permetteva loro di immaginare che fosse possibile abitare in qualsiasi parte scegliessero. Non mi mostrò che cosa lei pensasse di quello che aveva letto, ma mi mostrò come: Roger era il suo contesto, il condotto lungo il quale scorrevano tutti i suoi pensieri. Le mancava.

Ogni cultura ha i propri miti di riferimento. Per noi occidentali è la mitologia greca a venirci in soccorso. E non sarà un caso se gli dei hanno dimora sul monte Olimpo e se Zeus se ne sta sulla vetta. È dall’alto che si vede tutto, è da lì che si va incontro agli eventi che il Fato, sul quale neppure Zeus aveva potere, ha in serbo per noi. È da lì che possiamo decidere come raccontarli, senza temere la vertigine.

Guardiamo un paesaggio, dall’alto, ovunque esso sia, ci riempiamo di stupore e pensiamo che sia per la bellezza di ciò che gli occhi vedono. Invece questa meraviglia deriva dalla bellezza di ciò che gli occhi non vedono, dall’eccitazione per il potere assoluto che abbiamo di raccontare una storia, la nostra. Siamo noi a dare un senso agli eventi, siamo noi a decidere come reagire agli eventi. E questo ha il potere di cambiare la nostra storia. Siamo tutti narratori inconsapevoli, e tale inconsapevolezza ci fa perdere il filo o ci fa finire nella narrazione di qualcun altro. Ma basta salire un po’ in alto e guardarsi intorno. È l’occasione per prendere quella scintilla di meravigliato stupore e rimpossessarsi del nostro potere, della nostra storia.

E ancora una volta arriviamo a notare come i libri possano essere veicolo di epifanieportali verso parti di noi dimenticate.

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