Invecchio e non ho fatto strada né in un senso né nell’altro. Ambizioso e pigro, dinamico e claustrale, visionario e pratico, umile e megalomane, puro e lussurioso, aureolato e maledetto.
Guglielmo Bianchi
Guglielmo Bianchi era un artista poliedrico: pittore, poeta, sceneggiatore: impossibile classificarlo o imprigionarlo in uno schema. Più che al canone dell’artista bohémien la sua figura appartiene all’immaginario del dandy. Si poteva permettere il lusso di finanziare quasi interamente una rivista, Circoli, evitandone così il collasso, poteva dipingere e scrivere per puro diletto, senza nessuna preoccupazione economica, sostenuto dalla fortuna di una famiglia più che agiata. Nel 1937 ha già al suo attivo due raccolte di poesie – Sciamiti e Sestante– e una raccolta di prose, Eleganze. La sua attività pittorica non è da meno: particolarmente prolifici si rivelano gli anni dal 1930 al 1935, durante i quali vedono la luce le sue opere più significative e originali. Sono gli anni delle interminabili peregrinazioni che lo portano in giro per l’Italia e per l’Europa.
Tre anni dopo, alla fine del 1938, Bianchi varca l’oceano per raggiungere il fratello Alberto a Buenos Aires. L’aveva già fatto in altre occasioni, ma questa volta lo accompagna la sensazione che sarà qualcosa di definitivo. Probabilmente aveva capito verso quale destino l’Europa si stava avviando a grandi passi.
In Argentina Bianchi lascia che le proprie velleità, le sue aspirazioni si sciolgano nel caldo asfissiante della pampa. Non scrive, non dipinge, resta cristallizzato nel qui e ora di un presente di cui si sente solo inutile spettatore, mente il teatro dell’Europa va a fuoco trascinando con sé gli amici e la sua vecchia vita.
Quando ritorna, una volta esaurita la tempesta, aveva “in gran parte perduto quello spirito ironico che lo faceva ospite del mondo. Sentiva che il mondo aveva cambiato abiti e modi e probabilmente non si ritrovava più con le abitudini di un tempo”, come racconta Carlo Bo.
Muore a Lavagna nel febbraio del 1966.