Prima di tutto devo confessare un’imperdonabile – o forse no – mia caratteristica: trovo la lingua inglese così ricca e malleabile e giocosa che spesso preferisco leggere un libro in originale, anche quando il lavoro non c’entra affatto. Il mio lavoro come traduttore comporta che sguazzi, però, nella mia lingua madre, cioè l’italiano, alla ricerca del modo migliore per dire la stessa cosa, con lo stesso tono, lo stesso ritmo che trovo in inglese.
Pensare che l’inglese sia “più” a volte è un grande limite. Ma i limiti vengono messi lì apposta per essere superati. Sono sfide. E non riesco proprio a tirarmi indietro di fronte a una sfida, soprattutto se ha a che fare con le parole. O anche con i numeri, ma questa è un’altra storia. Quando, un secolo fa ormai, feci una prova per poter tradurre uno dei miei autori preferiti, William McIlvanney, il suo traduttore storico disse all’editore che, anche se c’era qualcosa da sistemare – tranquilli, succede a tutti, la perfezione è un’illusione dell’ego – sarei stata l’ideale per tradurre Will, perché avevo la voce giusta. E disse che il traduttore sta all’autore come un doppiatore sta a un attore. Usa la propria voce per rendere quella dell’originale.
In questo consiste il duro, difficile, a volte frustrante a volte esaltante lavoro del traduttore letterario. Questa immagine non mi ha più lasciato, e forse è per questo che associo sempre un testo a un’esperienza sonora. Ci sono poi diverse scuole di pensiero riguardo a piccoli – ma importanti – dettagli di traduzione. Tollero le ripetizioni? O le devo eliminare? L’autore le voleva o sono una svista del suo editor? Ci sono traduttori che rivoltano frasi come calzini purché non si veda nemmeno lontanamente l’impronta del testo di partenza, e altri che invece non vogliono, scientemente, stravolgere la struttura nervosa dell’inglese per consentire al lettore italiano di gustare la sua scrittura come una specialità cucinata in loco.
Poi, ovvio, dipende tutto da che cosa si sta traducendo. Ci sono romanzi scritti con lingua fluida, che si prestano a un ampio uso, in italiano, di sinonimi e rivoluzioni sintattiche. Ci sono storie che hanno nel ritmo sincopato o strascicato, o quale che sia, parte del loro senso. Il significante è
permeato di significato, tanto che nella traduzione si deve spesso scendere a compromessi, e rendere quel significato che lì si è perso in un punto diverso dove si riesce a incastrarlo.
Come si fa a ottenere tutto questo? Io leggo spesso stralci ad alta voce, sia in inglese che in italiano. Ma non è un metodo, è un istinto. E vi faccio ora un’altra confessione: provo una certa idiosincrasia verso ogni forma di metodo. Il metodo serve come introduzione a una certa attività, poi ognuno, acquisita competenza e consapevolezza, dovrebbe trovare la propria strada, magari metodica magari camaleontica, per realizzare il lavoro. E un piccolo segreto è non innamorarsi delle proprie soluzioni, e non temere di chiedere aiuto, all’editor che controllerà la vostra traduzione, per esempio, o a un collega traduttore, o a un madrelingua. L’umiltà è spia di competenza. Sapere di non sapere è in fondo la base della saggezza. Non temiate però di essere creativi. La creatività e l’ispirazione alimentano quell’istinto che rende il metodo un accessorio personalizzato. E come ogni competenza vanno esercitate. Quindi non si smette di essere traduttori nemmeno quando si legge, si scrive, si guarda un film, si assaggia un
nuovo piatto…
La parola come aura dell’esperienza.
“Quindi non si smette di essere traduttori nemmeno quando si legge, si scrive, si guarda un film, si assaggia un
nuovo piatto…” con buona pace di mariti, fidanzati, compagni, amici ecc che… “aspetta, stoppa un attimo, fammi sentire com’era in inglese”! ?
Mi è piaciuto molto questo articolo.Credo non sia facile tradurre fedelmente il (sentimento) che prova lo scrittore mentre compone il suo racconto.